Ciao a tutti!
Oggi risponderò alla domanda di Alessandra, giovane professionista della filosofia e della ricerca filosofica, che ci riporta a un quesito fondamentale: come mantenere la nostra autenticità e centratura nella relazione con il mercato, con i nostri clienti e con un mondo focalizzato sul fare efficienza, ridurre i costi, avere sempre di più, sempre più velocemente e a meno spesa?
Come riuscire a mantenere uno sguardo che sia autenticamente filosofico quando anche la filosofia si fa capitalisticamente merce di scambio?! Quando, per avere ingaggi bisogna comunque scendere ad un compromesso che sia prestazionale, tarato su fattori quantitativi e se qualitativi nel minor tempo possibile e con i maggiori risultati. Insomma può essere questa davvero una filosofia che si fa degna di se stessa??? Dov’è il senso dell’umano in tutto questo? E come un professionista della cura può contaminarsi con questo mondo scendendo nella concretezza delle cose pur conservando il proprio nocciolo duro, il proprio stile??!
[ Se volete una scorciatoia al contenuto di questo articolo, guardate il meraviglioso sketch note realizzato da Jacopo Sacquegno. ]
Cara Alessandra, le tue domande sono i miei stessi interrogatici da 20 anni, e non smetto di testare le mie possibili risposte, in cerca del migliore equilibrio fra me, il mio lavoro, e il mercato.
Condivido la mia esperienza, in modo da poter poi sintetizzare la mia possibile risposta in questa ricerca.
E se volete una scorciatoia sul contenuto , leggete il meraviglioso intanto vi segnalo lo sketch note di Jacopo Sacquegno, con cui traduce in disegno ed in arte il contenuto di questo articolo
3 mesi dopo la laurea in filosofia, mentre completavo un percorso triennale di formazione professionale come danzamovimentoterapeuta, mi sentivo davanti un radioso futuro da intellettuale disoccupata (mai visto un annuncio con scritto “cerco filosofa disposta ad assunzione a tempo indeterminato”!).
Invece ho trovato subito lavoro come responsabile Comunicazione & Immagine di un’industria metalmeccanica. Sarebbe più corretto dire che il lavoro ha trovato me in effetti (un insieme di coincidenze incredibili mi hanno fatto incontrare il mio futuro datore di lavoro!) e, incuriosita dal mondo industriale, ho accettato, anche per iniziare a costruirmi, a mettermi alla prova, senza pensare più di tanto se fosse quello il campo in cui volevo davvero esprimermi… mi sono fatta portare dalle occasioni della vita, diciamo così!
In generale, in effetti, posso dire che tutto quello che avevo fatto fino a quel momento nella vita fosse nato dalla mia capacità di ascoltare e seguire momento per momento quella che mi sembrava la strada migliore, riuscendo in questo modo a trovarmi sempre al momento giusto nel posto giusto, per fare le conoscenze di cui di volta in volta ho avuto bisogno per portare avanti un progetto di vita di cui ho capito solo dopo, negli anni, il contenuto.
Direi che ho capito solo nell’ultimo anno perché ho fatto tutte le scelte che ho fatto, da quando sono al mondo! L’anno scorso, all’improvviso, il disegno della mia vita si è fatto finalmente chiaro, tutto ha acquisito un senso, ho capito il perché di tanti passi, di tante decisioni. Che visione! È come se tutti i pezzi del mosaico di esperienze e scelte che ho accumulato nel tempo, si fosse improvvisamente assemblato da solo in un grande bellissimo disegno unitario.
Ho capito DOPO quello che avevo fatto PRIMA: guardando indietro ho riconosciuto il disegno della danza invisibile che guidava e orientava i miei passi.
E ho compreso che veramente la mia risorsa chiave è sempre stata la mia capacità di avere chiara la mia intenzione stando però sempre in ascolto del presente: ascoltarmi, al di là di tante elucubrazioni mentali, e orientare le mie scelte attraverso queste tre regole etiche:
- Ascoltare quale fra le strade che mi trovavo di volta in volta di fronte, mi apriva più opportunità;
- Ascoltare quale strada mi faceva sentire il cuore leggero, tranquillo, sereno, e quale invece mi faceva sentire il cuore complicato, incasinato, pesante, e il pensiero preoccupato e inquieto. Scegliere sempre la prima strada!
- Fidarmi di ciò che sentivo, interpretandolo come un segnale che le mie sensazioni positive erano sintomo che la direzione era quella giusta, al di là di quello che io potevo effettivamente valutare consapevolmente e razionalmente, sapendo che probabilmente io potevo comunque avere solo consapevolezza di una piccola parte degli elementi, e che gli altri li avrei scoperti in seguito.
Ascolto, fiducia, capacità di stare nel presente, e in più una chiara intenzione: voler trovare il modo di onorare il più possibile ciò che sono, le cose in cui credo, i miei valori, trovare il modo di essere 100% Diana nella mia vita personale e professionale.
Questa è sempre stata la mia ricetta per orientarmi nella vita e nel lavoro, consapevolmente scelta, costruita e allenata.
Quando ho conosciuto Maia Cornacchia (prima ancora dell’Università, quando ero alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, dopo il liceo) mi sono detta: ecco, io voglio fare il suo lavoro, un lavoro che mi permetta di crescere mentre apparecchio occasioni di crescita anche per gli altri.
Ci ho messo parecchi anni per riuscirci, ma non ho mai perso il filo, anche negli anni in cui giravo come una trottola per tutta la Lombardia a fare la consulente organizzativa in aziende di ogni tipo!
Ho sempre interpretato questi anni come necessari a costruire un certo tipo di consapevolezza molto forte dentro di me, facendomi “contaminare”, come dice Alessandra, con il mondo che volevo contribuire a guarire, e quindi conoscendolo molto bene dall’interno, per poter poi offrire il mio aiuto e la mia visione con molta più efficacia, avendone io stessa avuto esperienza diretta.
Io non penso che ci sia un mondo buono e angelico e un mondo cattivo e contaminato.
Penso che il mondo del lavoro di oggi sia il risultato di un certo percorso storico, di cui tutti abbiamo responsabilità.
E se vogliamo contribuire a cambiarlo, dobbiamo conoscerlo, e “contaminarci”, non possiamo cambiare qualcosa che non ci ha toccato, che non abbiamo toccato.
Il mondo del lavoro è dominato da logiche quantitative ma anche qualitative, e ogni azienda è alla costante ricerca del più perfetto mix di questi due approcci, in modo che poi anche io consumatrice quando vado ad acquistare, cibo, vestiti e altro, possa scegliere ciò che mi sembra abbia il rapporto qualità prezzo migliore per le mie tasche e per i miei gusti, e anche per i miei valori.
Non possiamo chiamarci fuori dalla responsabilità che abbiamo come consumatori: quando andiamo a fare la spesa, implicitamente poniamo continuamente alle aziende questa domanda: come puoi ottenere i tuoi risultati nel minor tempo possibile (= con il maggior risparmio possibile, di modo che anche io possa acquistare la tua qualità con un occhio al portafoglio)?
Quante cose Made in Bangladesh o Made in China abbiamo in casa? Quante made in Italy? Quante marcate “Commercio equo”? Quanto siamo attenti a comprare solo prodotti di aziende che hanno una politica di Corporate Social Responsibility e che applicano veramente i principi etici che dichiarano?
Le aziende saranno obbligate a sviluppare la loro intelligenza primitiva (fatta di intelligenza umana, collettiva ed ecosistemica, leggi QUI di più) quando noi inizieremo a comprare guardando l’etichetta, scegliendo prodotti socialmente responsabili, sempre, e accettando di spendere di più, perché la produzione di massa ci ha abituato a spendere poco, a scapito delle microeconomie, delle nicchie produttive locali, che sono state bruciate dal consumo di massa che chiede tanti prodotti, in grande quantità, e a poco prezzo.
Ciò detto, noi professionisti con un certo taglio abbiamo il dovere di non rinunciare al nostro “nocciolo duro” (bella metafora! Il nocciolo è anche un seme), al nostro stile centrato sulla persona, sull’umano, sui valori. (ti piace questa frase? Twittala cliccando qui!)
È questo che ci può distinguere, dal mare di consulenti squalo e dai professionisti dei numeri.
Come riuscirci?
Anzitutto partiamo dal presupposto che chi ci sceglie come consulenti, ci sceglie proprio per la nostra diversità, per la qualità che, magari anche inconsciamente, percepiscono nella nostra proposta, nel modo di comunicare, nelle sfumature del nostro modo di porci.
Se invece vogliamo proporci a qualcuno che ancora non ci conosce, secondo me il percorso è sempre quello indicato nell’articolo “3 domande + 7 passi per il tuo lavoro”, cioè:
1. Conoscere il cuore del cuore di ciò che sono, e che voglio portare nel mondo: in pratica, identificare da dove vengo (la mia storia, le mie competenze cuore), dove sono (i miei valori, il mio essere oggi, punti di forza e aree di miglioramento) e dove voglio andare (aspirazioni, intenzioni, rischi e opportunità del mercato).
Questo è il fondamentale e inevitabile lavoro di orientamento personale e ricerca del proprio talento, che io chiamo “genio nativo”, cioè quel mix di competenze, predisposizioni e desideri che costituiscono la mia unicità, e che è il cuore della mia persona. Su questo ho costruito un percorso di facilitazione e orientamento professionale ad hoc, per liberi professionisti e persone in cerca del proprio sviluppo professionale: spesso il punto che blocca sul nascere la nostra possibilità di realizzazione professionale è proprio non sapere chi sono, quale è la mia vocazione, quali sono le mie competenze cuore. Senza saperlo, non si va con efficacia da nessuna parte.
2. Stabilire a quali persone può interessare tutto ciò: quale è il mio target? Quale è il terreno più giusto ove piantare il mio seme? Chi può apprezzare la mia unicità, e nel tempo nutrirla e farla crescere? Quali sono gli interlocutori più propensi ad ascoltarmi? Chi ha bisogno della mia unicità, a chi posso rendere un servizio di grande utilità? Quale è la mia tribù, che risuona con i miei valori? Chi risuona con i miei sogni e i miei desideri?
Questo è il secondo punto inevitabile: chiarificare a chi voglio rivolgermi, identificare quelle nicchie di mercato che hanno bisogni e preoccupazioni che io posso contribuire a risolvere o aiutare ad affrontare. La cosiddetta “segmentazione del target” è il passo che ti permette di andare a fondo dei bisogni dei tuoi potenziali clienti, ed è anche il momento in cui, consapevolmente, scegliere a chi NON rivolgersi.
Questa capacità di selezionare i propri clienti è fondamentale: quanto più ci rivolgiamo ad una nicchia specifica di utenti, tanto più ci diamo la possibilità di essere autentici e centrati, non va bene pensare di andare bene a tutti: così saremo costretti a tagliare qualcuno dei nostri rami, a forzare il nostro essere in una forma che lo distorce anziché onorarlo – e non è quello che vogliamo.
Vogliamo trovare il giardino con lo spazio giusto per la nostra crescita, per la nostra espressione, e le persone più in grado di apprezzare il profumo dei nostri fiori, e gustare i nostri frutti. (ti piace questa frase? Twittala cliccando qui!)
Un melo non sta bene dappertutto: è felice in Alto Adige, ma cresce con difficoltà in Sicilia.
Se fossi un melo, vorrei essere piantato in Alto Adige e non in Sicilia.
Il problema è che spesso invece, per paura della carestia, vogliamo piantare meli dal Polo Nord al Polo Sud.
Ed ecco 7 domande per vincere la paura della carestia, che ci toglie libertà e centratura nella nostra relazione con il mercato:
- Quanto abbiamo paura della carestia?
- Quanto questa paura ci condiziona, e ci toglie fiducia nel movimento della vita?
- Quanto sono capace di fidarmi che la vita è generosa, e che se io la ascolto e la seguo, avrò sempre ciò di cui ho bisogno?
- Quanto credo nel “chiedi e ti sarà dato”?
- Quanto realmente credo che posso avere ciò che desidero?
- Quale è il prezzo che paghiamo perché non osiamo neppure sperare che i nostri desideri si avverino, e quindi non formuliamo una chiara richiesta di realizzazione neppure a noi stessi?
Se non sappiamo ciò che desideriamo, neppure la vita può saperlo, e di conseguenza come può aiutarci a realizzarci nel nostro cammino personale e professionale?
3. Costruire il ponte fra la mia unicità e la mia tribù, la mia nicchia, il mio cliente ideale (chiamatelo come preferite!). Trovare le parole più adatte per comunicare il cuore del cuore di ciò che sono e voglio portare nel mondo, in modo che le persone che voglio impattare mi conoscano, e mi scelgano.
Questa è la delicata fase della costruzione della nostra struttura di comunicazione, per sapere a quella fetta di mondo che ho scelto come il mio “cliente ideale” che esisto, e che ho qualcosa che per lui potrebbe essere importante, per aiutarlo ad affrontare le sue sfide quotidiane.
Si tratta di scegliere i contenuti cuore della mia comunicazione, organizzarli, scegliere le parole, le immagini, i colori e lo stile più adatto a sostenere il mio progetto professionale in modo che rifletta il mio progetto personale di vita.
È la fase della costruzione del proprio “brand”, la propria identità professionale e tutto il contenuto di cuore e di pensiero che la caratterizza.
Partire dal sincero desiderio di offrire un servizio per le persone e i contesti che sappiamo possono più avere bisogno di me e di come sono, è il punto di partenza per la costruzione di una comunicazione efficace, che farà riferimento proprio ai bisogni, ai desideri e alle preoccupazioni della nostra nicchia.
Occuparci della nostra comunicazione è fondamentale per noi liberi professionisti e troppo spesso vedo che invece è il lato più trascurato.
Come fa il mondo a venire a noi, se prima noi non andiamo al mondo? (ti piace questa frase? Twittala cliccando qui!)
Non possiamo lamentarci che lavoriamo poco o che abbiamo clienti inadatti al nostro potenziale e alle nostre aspirazioni, se non abbiamo attraversato anima e cuore le tre tappe qui sopra.
Sono queste tre tappe a darmi anche una struttura con cui proteggere il mio “nocciolo duro”, perché l’avrò riconosciuto, avrò imparato ad apprezzarlo, e avrò pianificato a chi portarlo, per garantire che il mio nocciolo-seme abbia le migliori chance di attecchimento e generazione di nuove risorse, per me e per i terreni dove verrà piantato.
E tu, quale è il tuo nocciolo duro, quell’insieme di tratti distintivi d’identità e valori che vuoi onorare con il tuo lavoro? E come lo stai onorando?
Cosa puoi fare per onorarlo ancora di più, e darti le migliori opportunità di crescita umana e professionale?
Mi piacerebbe leggere il tuo commento qui sotto (si chiede l’email, ma non comparirà! È solo per evitare spamming), per scambiare risorse e strategie con tante altre persone che stanno vivendo questi stessi dubbi.
Buona coltivazione dei vostri noccioli duri, in ascolto del nocciolo ma anche del terreno migliore perché si trasformi in seme.
Diana vostra
Ciao Diana e grazie per l’articolo, che calza a pennello con diverse domande che io stessa mi pongo in questi mesi.
Costruisco il mio lavoro giorno dopo giorno e molte volte mi chiedo, forse troppe, quale parte di me dovrò sacrificare nei miei diversi lavori.
Parlo di “diversi lavori” perché mi avvio alla libera professione e comincio a CONNETTERMI con i primi clienti.
E’ difficile tenere fede al nostro nocciolo duro, ma non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di possibilità di espressione da parte del tuo clienti che ti impone ritmi, culture e modi di fare.
Immagino una possibile risposta: prendi, crea, una via di espressione; ma non con tutti è possibile specie quando in gioco ci sono variabili rilevanti (contratti importanti, situazioni economiche, etc..).
Mi chiedo, quindi, come si fa? Cosa consigli in questi casi? Cosa consigli ad un giovane professionista che con un particolare cliente, o in un nuovo ambiente di lavoro, si ritrova appiattito ad immagine e somiglianza del datore/committente?
Professionisti junior come me hanno comunque il diritto di proporre ed imporre (eventualmente) il proprio modo di fare?
Grazie
Enrica