17 giugno 2020: Giornata mondiale contro desertificazione e siccitÀ

La campagna di nature is speaking è partita nel 2014, ed è ormai mesi che ve ne sto parlando in questi articoli, ciascuno dedicato ad uno degli 11 video della serie. Ma forse dovrei correggermi: i video sono 12. L’ultimo è uscito nell’ottobre 2018, nel quale a parlare è la foresta, con la voce di Shailene Woodley.

L’attrice è nota ai più anche per le sue proteste ambientaliste e femministe, quindi è degna ambasciatrice del messaggio portato avanti da Conservation International.

Ho pensato che questa settimana fosse perfetta per parlarne, visto che domani è la giornata internazionale contro la desertificazione e la siccità, secondo il calendario ONU. Un problema che è direttamente connesso a quello della deforestazione.

E qui lascio la parola a Diana per un suo approfondimento!

IL MIO STILE DI VITA ANTI DESERTIFICAZIONE E SICCITÀ

Eccomi qui! Sono Diana e irrompo nell’articolo della nostra Silvia per qualche affondo sul tema di oggi.

Clicca QUI per leggere la pagina dedicata a questa Giornata Internazionale sul sito web dell’ONU in inglese. Il tema di quest’anno è “Food, Feed, Fibres“, facendo riferimento a quanto la desertificazione e la siccità siano dovute al nostro stile di alimentazione, produzione industriale e tessile in particolare. Siamo tanti, troppi secondo Jane Goodall, la nota primatologa che ha studiato per anni gli scimpanzè in Africa. La nostra presenza massiccia sul pianeta, insieme con la crescita della richiesta di consumo di carne e di abbigliamento economico, spinge le poche grandissime multinazionali che monopolizzano la produzione di cibo e tessuti a politiche di sfruttamento del suolo e dei corsi d’acqua che distrugge le micro-economie locali dei Paesi emergenti (basate su micro attività agricole, oppure di pesca e allevamento), provocando salinizzazione dei suoli (attraverso l’uso massiccio di sostanze chimiche per sostenere l’agricoltura intensiva), erosione della parte fertile della terra, prosciugamento dei corsi d’acqua e riduzione delle risorse alimentari di fatto a disposizione delle popolazioni locali.

Diciamo che molto probabilmente quello che abbiamo in dispensa in cucina oppure nell’armadio dei vestiti, con buona probabilità ha contribuito a questi fenomeni, anche se per noi sono lontani e praticamente inimmaginabili, per cui facciamo fatica a sentirci responsabili di questi fenomeni. In realtà li incoraggiamo ogni volta che acquistiamo qualcosa di cui non conosciamo la storia, e di cui non siamo sicuri che sia stato prodotto nel rispetto della Terra e delle persone.

ABBIGLIAMENTO ETICO

Come possiamo farlo? Per abbigliamento ed accessori ti consiglio di cercare nel sito web “Good on You” la marca che vuoi acquistare, e leggere la valutazione che gli esperti di questo sito hanno dato rispetto alla responsabilità sociale ed ambientale, e fare di conseguenza le tue scelte di acquisto.

Oltre a questo, puoi prendere nota del nome dell’azienda di cui vuoi acquistare qualcosa (PRIMA di fare l’acquisto!) e fare una ricerca sul web del loro sito internet per verificare chi sono, i loro valori, cosa producono e soprattutto COME producono: di solito le aziende impegnate nella tutela dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori hanno un codice etico o una carta dei valori, da cui puoi trarre le tue conclusioni in merito al loro stile di produzione. fatto quetso lavoro una volta, fatto per sempre! Troverai i tuoi brand preferiti e poi ti affezionerai a loro. Per me è stato così. Puoi anche leggere questo articolo dove trovi molti riferimenti a produttori di abbigliamento etico, e puoi fare una ricerca web mettendo nel tuo motore di ricerca “Abbigliamento etico”: scoprirai un mondo di persone dedite a creare vestiti rispettosi della tua salute e di quella della Terra!

Infine il mio invito a guardare The True Cost: un film – documentario che ti racconta tutto quello che c’è dietro l’industria della Fast Fashion (leggi Zara, Mango, H&M e simili), cioè produttori di vestiti a basso costo, il cui vero prezzo viene pagato dalla natura e dalle persone che producono quegli abiti senza tutela della propria salute… e spesso della propria stessa vita.

CIBO ETICO

Per il cibo, ti consiglio di comprare più possibile a km 0 (ai mercati rionali degli agricoltori della tua zona, per esempio), cibo non confezionato ma sfuso (in modo da evitare rifiuti di plastica, carta o altro, con conseguente risparmio per le risorse della Terra), se possibile biologico (il che significa che la Terra non è stata violentata per produrlo). Se devi proprio acquistare cibo confezionato, inizia a studiare le marche che vorresti comprare. Prendi nota del nome dle produttore, e vai a vedere su internet se ci sono articoli che parlano della loro condotta sociale ed ambientale, o se hanno un sito web dove dichiarano i propri impegni e le proprie azioi a difesa della natura e dei diritti dei lavoratori. Non trovi nulla? Valuta tu il da farsi.

Io nel tempo ho selezionato le mie marche preferite, e ho fatto questo lavoro una volta e poi mai più (devo dire che acquisto quasi tutto Biologico, andando presso due aziende agricole Bio: Cascina Pelesa (qui dietro casa mia a Castel Cerreto), e una a Calvenzano, in provincia di Bergamo (si chiama Azienda Agricola Vegeta, in Via Misano, subito dopo la Cascina dei Frati). Qui compro la maggior parte della frutta e della verdura, tutto l’anno (quando mio papà ha l’orto attivo, d’estate, faccio la spesa da lui ovviamente!). E per tutto il resto vado da NaturaSì (pasta, riso, semi e cereali vari). Non ho bisogno di altro. Forse può anche essere utile rivalutare cosa compri, e vedere se proprio tutto quello che compri ti serve, o puoi farne a meno. Ti consiglio anche di leggere l’articolo apparso su Internazionale: Il prezzo occulto del cibo a basso costo per scoprire chi paga davvero il prezzo del cibo low cost che si trova nei supermercati (la risposta non ti farà piacere, un ulteriore invito alla tyua responsabilità ogni volta che scegli di dare i soldi a qualcuno).

E ora… di nuovo la parola a Silvia! E… a Shailene Woodley.

Shailene Woodley dà voce alla foresta

Una voce saggia e antica

Shailene Woodley ha 27 anni, e ma dà la voce ad un ambiente naturale che, invece, trasporta con sé un’ antica saggezza che gli uomini hanno disimparato ad ascoltare. Fermiamoci per un secondo a pensare cosa sappiamo veramente sulla foresta, sui suoi abitanti, sugli alberi che le danno vita. Se cerchiamo in un vocabolario qualsiasi, la foresta viene definita come “insieme di piante arboree distribuite su una vasta superficie di terreno”.

Proseguendo nel nostro “ripasso” sulle foreste, una domanda spontanea potrebbe sorgere: “ok ho capito cosa sono le foreste, ma che differenza c’è con i boschi?”. E’ una cosa che mi sono sempre chiesta anche io, a cui ho saputo rispondere solo recentemente grazie alle attività di Diana sul Forest coaching (clicca qui per saperne di più!), che mi hanno permesso di approfondire le mie conoscenze al riguardo.

Quindi, ho scoperto che bosco e foresta si distinguono essenzialmente in base all’estensione e al tipo di vegetazione. Il bosco è una superficie di terreno ricoperta da alberi d’alto fusto, la cui crescita è controllata dall’uomo per diverso scopi, sia commerciali che turistici. La foresta invece è un’area in cui gli alberi crescono spontaneamente, senza che l’uomo interferisca.

Ho fatto questo discorso pseudo-didattico per introdurci al vero nocciolo della questione: siamo sicuri che le superfici ricoperte dalle foreste siano ancora così ampie come dice la definizione?

La foresta oggi

Le foreste ricoprono quasi il 30% di tutta la superficie terrestre, quindi circa 153 milioni di kmq. Considerando che negli ultimi 30 anni sono stati persi, causa deforestazione, 129 milioni di ettari (equivalenti a 1290000 kmq) significa che quasi l’1% delle foreste totali non esiste più. Si potrebbe pensare che sia un numero molto esiguo, alla fine 1% può non sembrare un valore allarmante. Invece dovrebbe spaventarti perché è stato raggiunto in poco meno di 30 anni, con una rapidità pazzesca se si pensa ai valori della prima metà del secolo scorso.

Secondo gli ultimi dati riportati da Conservation International ogni anno nel mondo si perdono 8 milioni di ettari di foreste tropicali, equivalenti allo stato del North Carolina, per intenderci, un’area paragonabile a tutto il nord Italia più la Toscana.

Perché tutto ciò accade

Nella sua storia, l’uomo ha sempre sfruttato gli alberi come fonte da cui trarre legname per l’edilizia, per il riscaldamento o per la costruzione di mezzi di trasporto. Quello che è cambiato negli ultimi 50 anni è l’intensità di questo sfruttamento, e la totale assenza di strategie di riqualificazione delle aree disboscate per permetterne la ricrescita, il ripopolamento da parte della natura.

Semplicemente si è proseguiti nel continuo abbattimento di aree verdi senza pensare alle conseguenze. Tipico errore dell’ultima evoluzione dell’uomo: da homo sapiens sapiens a homo consumistis (sperando di aver azzeccato la declinazione latina). 

La principale causa della deforestazione è da imputarsi all’agricoltura. Infatti, citando questo articolo , l’80% degli eventi di disboscamento è dovuto all’espansione non sostenibile dei terreni destinati alle colture intensive. Un esempio molto noto, che ha fatto molta presa anche sui media fino a poco tempo fa, è quello delle palme da olio.

Paradossalmente, lo “scandalo” (se così può essere chiamato) sull’olio di palma è nato intorno ad una presunta tossicità del suddetto olio per la nostra salute. In realtà il nocciolo della questione era tutt’altro. Il problema dell’uso diffusissimo di questo prodotto nell’industria alimentare sta avendo un serio impatto ecologico sulle foreste pluviali di tutto il mondo.

Un esempio è l’isola di Sumatra, un tempo una foresta galleggiante nell’oceano indiano, adesso dilaniata dalla furia umana, che negli ultimi vent’anni ha causato la perdita di milioni di ettari di alberi, con non pochi effetti sulla biodiversità dell’isola.  A farne le spese sono specie simbolo dell’isola e della sua varietà zoologica, tigri ed oranghi, specie considerate dal WWF ad altissimo rischio di estinzione. Volevo condividere con voi questo video-denuncia di Greenpeace, in cui in modo diretto, oserei dire crudo, fanno capire quanto il mondo consumista, con i suoi vizi e il suo egoismo, sia l’artefice della morte di milioni di animali.

Un po’ di chiarezza

L’olio di palma è un acido grasso insaturo di origine naturale, usato nell’industria alimentare come additivo. Viste le sue proprietà organolettiche, oltre che per l’economicità della sua produzione, negli ultimi 50 anni è diventato il perfetto sostituto di altri acidi grassi. Come tutti gli acidi grassi saturi, una sua eccessiva assunzione può avere effetti dannosi sulla salute, soprattutto a livello cardiovascolare, potendo far aumentare i livelli di colesterolo e di conseguenza i rischi di ammalarsi di aterosclerosi.

Tuttavia, come molte meta-analisi scientifiche hanno dimostrato, non esiste una specifica tossicità dell’olio di palma per l’uomo. I suoi effetti negativi sulla salute sono quelli che si conoscono da sempre. Come si legge in questo documento del 2016 del ISS.

Quindi, appurato che l’olio di palma non ha effetti sulla salute, lo stesso, purtroppo non si può dire per la salute del pianeta. Infatti l’aumento esponenziale della richiesta industriale di olio di palma ha portato, ad una crescita insostenibile del tasso di disboscamento. L’effetto si vede soprattutto in quei paesi in via di sviluppo, la cui unica fonte di entrate sono le foreste naturali che possono essere sfruttate dagli investitori stranieri, pronti a pagare molti soldi pur di piantare palme da olio. A discapito della flora e della fauna locali.

Un esempio è la Liberia, paese dell’Africa occidentale, le cui foreste sono resistite alla minaccia degli abbattimenti rispetto a quelle dei paesi confinanti.

Ma la loro esistenza potrebbe non essere più garantita per il futuro. Il governo liberiano vede nello sviluppo del commercio di olio di palma una grande opportunità per la propria crescita economica, a svantaggio delle foreste. Infatti, oltre ad essere un polmone della Terra, a livello locale risultano importanti per la biodiversità, per il potenziale ecoturistico e per ricavare prodotti di falegnameria (fonte qui).

Conseguenze della deforestazione

La Terra è un pianeta la cui sopravvivenza è basata su equilibri dinamici tra i numerosi ecosistemi esistenti, che sono, allo stesso tempo, estremamente sensibili. Anche il più leggero spostamento verso uno o l’altro estremo, rischia di avere effetti disastrosi.
La perdita dell’1% delle foreste esistenti ne è un esempio.

La deforestazione è infatti uno dei principali motivi dell’aumento delle temperature dell’atmosfera terrestre, e di conseguenza, del cambiamento climatico.

Per chi non lo sapesse infatti, il terreno dove le piante penetrano con le loro radici, è uno dei grandi serbatoi di carbonio terrestri. Sul suolo si depositano i residui organici derivati dalla morte degli animali o dei vegetali, permettendo così l’accumulo di carbonio che può essere sfruttato come fonte di energia dagli organismi che vivono nel suolo.

Di fatto nel terreno si stabilisce un equilibrio tra quantità di carbonio trattenuto e carbonio emesso, che negli ultimi anni ha subito un netto spostamento verso la seconda condizione. E’ così che le foreste sono diventate degli emettitori di carbonio nella sua forma bi-ossidata: la CO2.

Secondo uno studio pubblicato su Science e riportato da Focus, le regioni verdi dei tropici emettono più anidride carbonica in un anno di quanto non facciano i mezzi su strada degli Stati Uniti.

All’origine di tutto questo, si trova in primis la cosiddetta tecnica del “taglia e brucia” che implica l’appiccamento volontario di incendi su aree delimitate, per renderle fertili con la cenere generata dalle piante tropicali “sacrificate” per questo scopo. Inoltre, il disboscamento determina anche lo sradicamento degli alberi dal suolo, portando quindi tutto il contenuto di quest’ultimo all’aria aperta, anidride carbonica inclusa.

Ora, se consideriamo il fatto che deforestazione significa eliminazione di alberi, che notoriamente sono gli organismi viventi in grado di convertire la CO2 in O2 respirabile, si sta creando una situazione altamente disequilibrata, poiché la produzione di CO2 aumenta, ma il numero di alberi no.

La soluzione la natura ce l’ha data

La specie umana è composta, in parte, da individui a cui può non importare molto del mondo in cui vivono, ma alla maggioranza, in realtà, importa eccome. Numerosi scienziati stanno cercando da anni nuove tecnologie per limitare le emissioni di CO2.Molte funzionano e sono già in uso (un esempio a caso: le auto elettriche).

Però ci dimentichiamo che la soluzione spesso va cercata nelle cose semplici, senza stare a fare calcoli matematici complicati. A volte può capitare che la nostra intelligenza sia sopravvalutata, e questo ci fa allontanare dalla fonte delle soluzioni, che frequentemente si rivela essere proprio la natura. Come già detto, le foreste tropicali sono note per essere delle efficienti sequestratrici di anidride carbonica. Quindi, applicando dei piani di riforestazione e agricoltura sostenibile, si potrebbero ristabilire gli equilibri necessari a riportare i vari ecosistemi in una situazione di normalità.

Cominciamo ad agire

Un esempio è la Cina ,che nonostante sia considerata una delle nazioni più inquinanti, ha preso sul serio il suo impegno di ridurre le emissioni. La Cina è promotrice di un’ intensiva campagna di ripopolamento boschivo per il quali sono stati investiti milioni di dollari negli ultimi 7 anni. Dal 2013 ad oggi, il governo cinese ha ricreato più di 300000 kmq di foreste, una superficie grande quanto l’Italia.

Nel dicembre del 2015, è stato firmato da 195 paesi l’accordo di Parigi. Nel trattato è previsto anche il cosiddetto piano REDD+ (Reduced Emissions from Deforestation and Forest Degradation), un piano d’azione da seguire per preservare, proteggere e ripopolare le aree verdi in tutto il mondo.

Forse, prendendo ispirazione dalla Cina, potremmo presto vedere il tasso di deforestazione abbassarsi per la prima volta dal suo inizio massivo con la rivoluzione industriale.

La foresta comunica

L’ultima parte di questo lungo articolo ( non sono riuscita a trattenermi!) vorrei che fosse un po’ meno ecologista e un po’ più biofilica (ricordi la biofilia? Ne parlavo qui). Perciò ho deciso di parlarvi degli studi di Suzanne Simard, una docente di ecologia forestale all’Università della British Columbia, famosa per i suoi studi sulla comunicazione tra gli alberi.

Lei ha scoperto infatti come alcune specie di alberi creano una rete di comunicazione sotterranea, formata dalla micorrize (associazione di radici e funghi microscopici). Grazie ad esse possono comunicare e scambiarsi sostanze organiche e non, così da fornire nutrimento a quegli alberi che sono sprovvisti di tal molecole. Sotto agli alberi che sono più ricchi di questi elementi, si creano dei nodi di micorrize più grandi, che prolungandosi, ampliano la rete di comunicazione.

Mother trees

Questi alberi vengono chiamati dalla Simard “alberi madre”. Gli alberi madre permettono a quelli più piccoli, o deboli di sopravvivere e, sacrificando le loro energie, creano lo spazio per far nascere nuove piante. Se gli alberi madre muoiono, o vengono sradicati, inviano dei segnali agli alberi figli su come “imparare” a ricreare questa rete per la sopravvivenza. Trasmettono letteralmente la saggezza ai propri “figli”. Ma se a morire sono tanti alberi madre, beh, il sistema crolla.

La Simard lo dice chiaramente nel suo Ted Talk  (che potete vedere cliccando qui), e con questo concludo:

Un eccessivo disboscamento colpisce i cicli idrogeologici, degrada gli habitat della fauna selvatica ed emette gas serra, creando ulteriore disturbo e moria di alberi.

Tuttavia, il prelievo di uno o due “alberi madre” da una foresta, è tollerabile ma non bisogna oltrepassare il limite. Gli alberi madre sono come dei perni in un aeroplano.

Togliendone uno o due, l’aeroplano continuerà a volare, ma eliminandone troppi, come quelli che tengono le ali al loro posto, l’intero sistema crollerebbe.

Simard afferma che non è necessario abolire il taglio degli alberi ma bisogna salvarne il lascito, affinché attraverso le reti, il legno, i geni, possano trasmettere la loro saggezza alle successive generazioni di alberi.

Quando pensiamo alle foreste, adesso sappiamo che non sono semplicemente un insieme di alberi ma sistemi complessi capaci di un enorme potere di auto-guarigione.

Riflettendoci, è come se sradicando un albero ne stessimo eliminando un’intera stirpe.

Vi lascio con una domanda:

Vogliamo veramente che la nostra generazione venga ricordata come la distruttrice del pianeta?

SILVIA ARBA